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lavoratori immigratiMi sono qualche volta domandata quanto siano ancora autentiche e credibili, oltre che efficaci, le manifestazioni - istituzionali o spontanee che siano - volte “a non dimenticare”. Non voglio essere fraintesa: la memoria è una parte fondamentale del bagaglio sentimentale e culturale dell’umanità in generale, e di ogni singolo uomo o donna in particolare. L’Europa si appresta -il 27 gennaio prossimo - a celebrare la Giornata della Memoria istituita per mantenere vivo il ricordo della Shoah.

Si sentiranno e si leggeranno decine, centinaia, migliaia di dichiarazioni che, parola più, parola meno, conteranno l’espressione “mai più”.

“Ricordiamo affinché non avvenga mai più”: eppure non mi pare che stia succedendo esattamente questo.

Esecriamo – giustamente e doverosamente - un passato terribile e ignominioso, ma su un presente molto simile, che però riguarda “gli altri”, siamo pieni di tentennamenti, ridiscutiamo l’efficacia o la sospensione di trattati, erigiamo muri, costruiamo barriere di filo spinato, riteniamo “rubate” le risorse che servono a sottrarre degli esseri umani alle stesse torture e alle stesse nefandezze che subirono, più di 70 anni fa, proprio le persone per le quali celebriamo oggi il Giorno della Memoria, il giorno del “ricordiamo affinché non avvenga mai più”.

C’è qualcosa di insopportabilmente stonato ed ipocrita in tutto questo.

Davanti ad una emergenza umanitaria come quella che interessa la Siria – e non solo – l’unico modo vero e coerente di celebrare il Giorno della Memoria sarebbe di fare quello che fecero tanti coraggiosi italiani – operai, preti, mamme, insegnanti - durante la Seconda guerra mondiale e il terribile periodo dell’Olocausto.

Operai, riuniti in cellule partigiane nelle grandi fabbriche del nord, che organizzavano boicottaggi ai treni diretti in Germania per fermali e liberare i derelitti destinati ai campi di sterminio, derelitti accolti a casa anche solo per una notte, per rifocillarli, vestirli, e poi condurli, a rischio della vita, laddove venivano presi in carico dalle reti partigiane per organizzarne la fuga. Ed erano famiglie nelle quali non c’era di che scialare, e anche solo offrire una giacca lisa e usata significava privarne se stessi.

Parroci di periferia, affiancati dal sostegno di intere comunità contadine che diedero rifugio, sostentamento, e una via di salvezza, a migliaia di ebrei, di dissidenti, di emarginati e perseguitati in un’Italia infinitamente più povera di quella di oggi, dove si faceva fatica a procurarsi anche solo un pasto al giorno.

Nessuno si chiedeva allora se le risorse per salvare i perseguitati fossero ”sottratte” agli italiani, nessuno si sognava di dire “prima gli Italiani”: esisteva un solo imperativo morale, ed era quello di sottrarre gli esseri umani a una barbarie che non sembrava avere né limiti né fine e che stava mietendo un numero di vittime senza pari.

Oggi invece che i treni da boicottare abbiamo barconi da non far naufragare: ma per il resto gli esseri umani dei barconi non sono meno disperati e perseguitati di quelli che venivano piombati nei vagoni dei convogli della morte.

E per la quasi totalità di noi donare una giacca non significa privarsi dell’unico capo di abbigliamento posseduto così come per la quasi totalità di noi non è un problema procurarsi non uno, ma tre pasti al giorno.

Forse abbiamo più giacche e più cibo di quanti ne avessero i nostri nonni, ma abbiamo molta meno sensibilità.

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