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Abraham YehoshuaUna nostra iscritta, tornata di recente da un viaggio in Israele e Palestina, dal quale ha portato con sè, pur nella complessità straordinaria della vicenda, quello che definisce “un bellissimo ricordo dei rapporti, certo non generalizzabili, tra israeliani e palestinesi”, ci segnala questo articolo di un grande scrittore israeliano che offriamo come contributo di riflessione su di una questione tanto complessa da sconsigliare certezze assolute su come affrontarla.

NON SONO TERRORISTI MA SOLO NEMICI di Abraham Yehoshua

La Stampa del 13.07.2014

Quando Israele fu fondato nel 1948 i giordani bombardarono Gerusalemme, la posero sotto assedio e uccisero centinaia di suoi cittadini. I combattenti della Legione Araba conquistarono i centri ebraici di Gush Etzion, in Giudea, trucidarono molti israeliani e assassinarono a sangue freddo numerosi prigionieri. Ma durante tutti quei mesi di guerra dura e brutale nessuno definì i giordani «terroristi». Erano «nemici». E malgrado lo spargimento di sangue ci furono contatti tra ufficiali israeliani e giordani per raggiungere un accordo per il cessate il fuoco e la firma di una tregua precaria, ottenuta nel 1949 grazie alla mediazione delle Nazioni Unite.

Prima della guerra dei sei giorni, nel 1967, i siriani bombardarono i centri abitati israeliani dell'alta Galilea, uccisero e ferirono non poche persone, eppure nessuno definì la Siria «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E Israele, ovviamente, non solo non lo riforniva di carburante ed energia elettrica ma, di quando in quando, inviava suoi emissari a incontrare i loro omologhi siriani per chiarimenti e colloqui circa un'eventuale tregua. Fino alla guerra dei sei giorni gruppi di terroristi provenienti dall'Egitto seminarono morte negli insediamenti israeliani lungo il confine, ma anche in questo caso l'Egitto non venne definito «Stato terrorista» bensì «Stato nemico». E nonostante Egitto e Siria dichiarassero apertamente la loro intenzione di distruggere Israele il Primo Ministro israeliano, a ogni apertura dell'anno parlamentare, lanciava un appello ai loro leader perché avviassero colloqui per ripristinare la calma e raggiungere un accordo di pace.

Che cosa è successo dunque dopo il ritiro di Israele dalla Striscia di Gaza, l'evacuazione degli insediamenti ebraici e il trasferimento del controllo    della Striscia a Hamas che ci impedisce di definire il suo governo «nemico» e non «terrorista»? Forse questo aggettivo è più incisivo di quello di «nemico»? Oppure suggerisce che, nel profondo del cuore, ancora vediamo la Striscia di Gaza come parte della Terra di Israele, un luogo dove abbiamo tentato senza successo di insediarci e al quale forse speriamo di tornare, e pertanto non consideriamo i suoi residenti come cittadini di uno Stato nemico ma come arabi israeliani fra i quali operano cellule terroristiche? O magari avvertiamo un senso di responsabilità verso la popolazione della Striscia di Gaza come non ci accadeva con gli abitanti di Siria o Egitto e per questo continuiamo a rifornirli di carburante, di elettricità e di cibo ma, al tempo    stesso - e questa è la cosa più importante - ci rifiutiamo di proporre al governo di Hamas di negoziare con noi, come abbiamo fatto in passato con siriani, giordani ed egiziani?

Tutte queste perplessità e complicazioni derivano forse dal timore che eventuali colloqui con Hamas per un cessate il fuoco e una stabile tregua possano «indebolire» Abu Mazen. Ma probabilmente i morti a Gaza indeboliscono ancora di più colui che si considera il leader del popolo palestinese. E anche  supponendo che sia questa la nostra preoccupazione rimane la domanda perché non abbiamo approfittato del governo di unità nazionale palestinese recentemente istituito e di cui Hamas è membro per avviare un dialogo con questa organizzazione. La profonda frustrazione di Hamas deriva, a mio parere, da una sostanziale mancanza di riconoscimento della sua legittimità agli occhi di Israele e di gran parte del mondo. Una frustrazione che lo porta a commettere devastanti atti di disperazione.

Per questo è importante considerare Hamas almeno come un nemico legittimo, con il quale poter arrivare a un accordo o contro il quale combattere in uno scontro armato frontale, con tutto ciò che questo comporta. È così che abbiamo agito in passato con i Paesi    arabi. Fintanto che definiremo Hamas una banda di terroristi che ha preso il sopravvento su una popolazione innocente non potremo fermare i bombardamenti    nel Sud di Israele con un'adeguata reazione militare e, ancor più importante, non potremo negoziare apertamente con il suo governo per raggiungere un accordo graduale che comprenda una supervisione internazionale della rimozione dei missili da parte di Hamas e del blocco aereo, marittimo e terrestre    della Striscia da parte di Israele, l'apertura dei valichi di frontiera per permettere il passaggio di lavoratori e quella di un eventuale, futuro corridoio di transito sicuro fra la Striscia e la Cisgiordania. Ma se, diranno i più scettici, Hamas non vorrà negoziare apertamente con noi? In questo caso gli proporremo di farlo nell'ambito del governo di unità palestinese. E semmai dovesse rifiutare anche questa proposta allora lo combatteremo in maniera legittima, secondo le regole della guerra.

Non dimentichiamo però che i palestinesi di Gaza saranno nostri vicini per l'eternità, come noi lo saremo per loro. Non guariremo questo ascesso sanguinante con discorsi sul terrorismo ma con il dialogo o con la guerra, scontrandoci con un nemico legittimo verso il quale non abbiamo rivendicazioni territoriali o nessun'altra pretesa che non sia quella di un cessate il fuoco.

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